Mostra al 4 Seasons - Bosforus / Sofa

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La recente produzione di Timur Kerim Incedayi, nativo della favolosa Instanbul, resta solidamente coerente con le sue prove precedenti, toccando, a ormai quasi cinquant'anni dal suo definitivo approdo in Italia, risultati anche più sottili e sensibili, se possibile, della sua pittura trascorsa; e purificando la sua ispirazione in una tematica senz'altro più univoca, dove sono ormai dileguate le residue tracce del suo iniziale interesse per il mondo industriale: non solo per quella che De Micheli aveva chiamato la <paurosa bellezza> delle sue macchine, ma anche per i più addolciti "feticci" della modernità, gli aerei o le auto e le moto da corsa, ai cui lucori metallici, tuttavia, l'artista già sovrapponeva (scrivevo) <<il velo atmosferico di un sogno inabissato nella contemplazione di tempi lontani>>. Sono ormai dileguate, lasciando tutto lo spazio a quel sogno, a una contemplazione del "meraviglioso" Oriente; o meglio di quel magico varco tra Oriente e Occidente che è il Como d'oro, con la indicibile malìa di una civiltà trapassata, come il nome della città, dal bizantino al classico all'islamico, in una catena che la pittura di Incedayi fa rivivere nell'intreccio della propria ispirazione.
<<Il linguaggio di Timur -ha scritto Maurizio Marini -è composto di una intensa emotività che si esprime con colori e suggestioni che sembrano congiungere due mondi e due estetiche, nonché due tempi. Ma, in fondo, non potrebbe essere altrimenti! Timur è un artista la cui visione è figlia di due continenti: un Bosforo d'immagini, forme che si condensano col colore come l'acqua del mare virata dalle luci dell'alba e del tramonto>>.
Ed ecco una civiltà e una bellezza che nella loro durata sembrano protrarsi all'infinito, come in un dannunziano <poema paradisiaco> [...]
I cieli e le acque dipinti da Incedayi, nel loro incontro nubiloso di tocchi sfumanti, di rossi e di blu, di blu che schiariscono o si fanno più fondi e bui, possono essere messi a confronto con le parole di un altro innamorato di Istanbul, il premio Nobel Orhan Pamuk, un confronto da cui però emerge una significativa differenza di stati d'animo. [...]

La contemplazione, in Pamuk, si tinge di malinconia, di una profonda tristezza nel rimpianto di ciò che la città era stata. [...]
Invece la visione di Incedayi non si colora di malinconie né di memorie e psicologie personali, ma è la registrazione di un puro incanto al di là dei trapassi o dei condizionamenti storici, il suo Bosforo è un assoluto della bellezza, i suoi colori, le sue sfumature, i suoi impasti non descrivono stati d'animo o umori cangianti, ma fissano la rivelazione di momenti eternati. Le tigri dalla pelle variegata, i fulvi leoni o le lucide pantere che fanno ogni tanto la loro comparsa tra gli oggetti preziosi e i corruschi panorami sono anch'essi la manifestazione di una vivida, guizzante bellezza che non conosce scarti tra natura e arte, tra natura e storia, tra storia e arte ma si rivela come epifania.
La bellezza femminile si associa alla celebrazione, con quel nudo morbido e pieno che nel dipinto intitolato " all' Hamam " si incontra con l'opulenza delle decorazioni, sposando Bonnard, una volta ancora, al Poeta: <>Il suo seno / è una primavera anelante. Il suo palpito si ripercuote /dai golfi e dai bosfori azzurri>>.
Osservando la pittura di Incedayi si riceve effettivamente l'impressione di una bellezza elevata a sacralità, eccepita dal tempo, eternizzata. Il pennello diventa un offerente; i dipinti evocano quel momento dell'Offertorio, che è il tratto culminante della messa cristiana ma trova corrispondenze in liturgie di ogni tempo, unitamente alla concezione dell'altare. Altari delle offerte, come anche dei sacrifici, hanno una centralità in gran parte delle religioni: dall'Egitto, alla Grecia, a Roma, a Bisanzio.
In tempi primordiali quella che sarà chiamata la "mensa" della divinità era imbandita sul terreno, alla portata del dio transitante. La necessità dell'altare sorge quando l'oggetto sacro, rappresentante del nume, viene a trovarsi a una certa distanza dall'offerente e dall'offerta, ovvero quando, nelle religioni più evolute, la divinità è insiderata come presente solo idealmente.
Sulla "mensa" sorretta e portata in alto da una base, destinata a sorreggere i doni per il dio, si disponevano i cibi, carne, pane. frutta, insieme a fiori. ghirlande e incenso, a profumi da bruciare raccolti in vasi preziosi.
I "piedistalli", per volerli impropriamente indicare con questo nome, di quelle che ancora impropriamente potremmo chiamare le "nature morte" di Inceday a me sembrano avere la valenza di are, di "mense" di altare, su cui l'artista "imbandisca" le proprie offerte alla Bellezza.
A volte, in Grecia, l'altare presenta nella parte superiore la forma del capitello dorico, più spesso del capitello corinzio con le volute laterali. Non a caso, direi (e se è un caso è per congenialità), diverse volte le "basi" di Incedayi sono dei capitelli bizantini, o islamici delle più preziose fogge; per lo più sono comunque plinti marmorei, che recano scolpite (s'intende nella finzione) o dipinte scene mitologiche, o decorazioni di festoni e bucrani, o cavalieri in combattimento, o quattro cavalli bianchi come quelli del carro-del sole.
Tra i "doni" offerti sulle mense figurano spesso, certamente, i cibi: soprattutto frutti, bacche rosse, uve e con grande frequenza melegranate: frutto, quest' ultimo, carico di simbologie che attraversano i secoli in Occidente come in Oriente, a partire da quella della fecondità. Nella Grecia antica era, il melagrana, un attributo di Afrodite, oltre che di Era, mentre a Roma le teste delle spose venivano acconciate con rami di melograno. Ma poi in Asia l'immagine della melagranata aperta esprimeva ed esprime augurio di salute e di prosperità, valendo, il suo succo, a scongiurare la sterilità. La mistica cristiana ha trasposto su piano spirituale questo simbolo di fecondità. [...]

Al melograno si accompagna spesso il violino: la musica, anch'essa si colloca ai limiti del divino, è cibo dello spirito; la percepiamo come un equivalente della pittura nella ricerca della spiritualità al di là delle parole e il violino è lo strumento che sa estranee dalle proprie corde la spiritualità, appunto, ma anche la visceralità, la profonda e struggente scaturigine dell'anelito spirituale. Vasi, calici, coppe, vetri, piatti, tavole o pagine di scritture antiche intrecciano ancora sulle "mense", a testimonianza di un tempo la cui continuità confida con l'infinito, le loro trasparenti o fulgide policromie realizzate in registri sempre contenuti e morbidi, ma vivificati dal soffio della luce, con il personalissimo uso del pastello e di tecniche miste.
Ma ecco che talvolta Incendayi sovrappone allo squisito capitello, sollevandola come su un trono, ma spingendone l'immagine in lontananza, la visione di Santa Sofia che con i suoi minareti sembra vellicare la pancia corrusca del cielo, gravida com'è di nubi, trascolorante dal rosso al blu e un blu più denso e scuro, come mungendone la pioggia.
La pittura di Incedayi ha questa soffice qualità di rendere aerei i colori, o di liquefarli, nel loro impersonare il cielo o il mare, di produrre una respirante fusione dalla quale si generano le forme, come emananti da un velato disegno interno. [...]

Lo splendido elefante, simbolo nelle regioni asiatiche di stabilità e immutabilità, anche qui, in un bellissimo dipinto di Incedayi sembra evocare con la sua presenza massiccia e lo sguardo vivido un destino di immortalità, di eternità che aleggia sulla visione di Istanbul, troneggiante in lontananza, immortalità della bellezza. <Arte non di mimesi -scrive Stefania Massari -ma di evocazione, di ricordi, di antiche memorie. Di qui nasce la predilezione di Timur per l'indefinibile, spesso solo suggerito nell'incertezza della luce crepuscolare, la realtà visibile muta, perde i suoi contorni sfuma nell'ambiguità>. E' l'ambiguità di un tempo, sì di memorie, che prendono tuttavia forma di apparizioni sensibili, di attualità e di vita interiore.
Maurizio Calvesi