Maurizio Calvesi 1996 - Il crogiolo di Timur Incedayi


In chiusura del secolo, si ripropone per l'arte una situazione fluida, percorsa da molteplici orientamenti, in qualche misura simile a quella che caratterizzò gli ultimi decenni del secolo precedente. Il tardo Ottocento infatti si era accostato all'arte con una inedita ricchezza di approcci, disegnando per la prima volta un ventaglio aperto: una svariata compresenza di tendenze linguistiche e di atteggiamenti, tra ricerca del simbolo e studio della percezione, psicologia e fisiologia, rifiuto della storia e suo richiamo, favola e scienza, fotografia della natura e sua 2 idealizzazione, poetiche della solitudine e immersione spettacolare nel mondo.

La rivolta delle avanguardie (sia pure molte avanguardie, ma in una: "l'avanguardia") interruppe questa pluralità, con il prevalente accento di base del rinnegamento e appunto dell'interruzione: interrompere una continuità che fu archiviata con il nome di tradizione. Vennero così troncate non poche esperienze ancora vive agli inizi del Novecento, tra cui quel filone debordante nell'estetismo che aveva guidato, in vari modi, una rivisitazione sentimentale della classicità, ricca di conseguenza nel campo dell'arte e della stessa critica.
Nell'attuale recupero di un diritto alla pluralità delle esperienze, ci si chiede se anche qualche corda dismessa di quel incerto interrotto non possa ritrovare nuova, e naturalmente diversa, voce; e se anzi non l'abbia già ritrovata.
Allora il "sentimento moderno", ardito o romanticamente malinconico, poteva presentarsi in più forme: anche come estrema elaborazione della Sehrisucht schilleriana (desiderio struggente nei confronti dell'antico). Fu così varato un vascello di idealismo che volendo ricongiungersi a Platone ne fece un teorico della Bellezza come ricordo.
"Tutte le arti - scriveva Walter H. Pater - aspirano costantemente alla condizione della musica". La musicalità é l'essenza della creazione artistica, ma anche l'eco, la scia immateriale dei sentimento che accompagna l'inappagabile contemplazione. L'antica e perduta Bellezza è presente sì, ma quasi come fantasma o miraggio. O meglio, come una riconstruzione della memoria. Ed è, platonicamente, attraverso la "reminiscenza" che sensi e intelletto possono riattingere l'idea del bello.
Dunque una memoria di portata ormai abissalmente storica, ma attiva, al di là di questa distanza, nella metastoria e nel mito, Fu proprio questo filone di pensiero, già con Ruskin, a ravvisare nel mito la forma di leggi costanti, che si appalesano come in sogno, rendendo il mito simile a una visione; e instradandolo verso la psicologia - più tardi esplorata da Jung - dell'archetipo.
Che questo ideale di bellezza contrastasse con la realtà, non era, per Pater o per Burne-Jones, un motivo di dissuasione. Il mito, alimento del classicismo, è una realtà viva; e proprio nel contrasto con la realtà pratica andava colta la modernità di chi attendeva al suo recupero.
Le elaborazioni della psicoanalisi hanno poi dissociato dalla Bellezza il mito, riconfondendo le sue "visioni"-in un'ottica non importa se scientificamente fondata, ma culturalmente riduttiva con le rappresentazioni degli impulsi psichici (Freud); e (Jung) con gli itinerari e i processi analitici del proprio astratto Mandala. Hanno cioè perduto di vista la Bellezza come luogo plasticamente centrale e momente "interno" del mito; né l'arte ha supplito a questo urgente disguido, anzi sommandovi l'urgenza dei propri, spietati abbattimenti; e coltivando una nuova serra di fiori inusitati che tuttavia, compiuto il loro ciclo, hanno lasciato una prospettiva di deserto.
Oggi un'idea di Bellezza, ad onta della sus improbabilità, può sembrare di nuovo approdata al porto burrascoso dell'arte, se sì considera unitamente l'opera, pur divergente nei linguaggi e nelle pratiche, di alcuni artisti (soprattutto italiani, o operanti in Italia) artisti dal percorso ormai consolidato anche se più o meno lungo.
Uno di questi, Timur Kerirri incedayi, lavora a Roma da più di un trentennio. Nato ad Istanbul nel 1942, già a diciannove anni era a Milano, per frequentare la facoltà di architettura nel Politecnico. Nel 1962 si trasferì nella capitale, iscrivendosi all'Accademia di Belle Arti dove conseguì il diploma nel 1966.
"Giusto l'anno dopo, entrai in quella Accademia come docente e ricordo appunto la qualificata presenza di diversi studenti del Vicino Oriente: turchi, o iraniani, secondo una tradizione che durava da anni e credo continui."
La maggior parte, però, rientravano in patria dopo il corso di studi come quello di. incedayi, che non ha mai abbandonato il nostro paese, segnalandosi per tempo all'attenzione della critica. Nel 1966 prendeva parte alla Quadriennele di Roma: nel '68 disegnava costumi e scenografie per le opere di Mascagni (Cavalleria rusticana e Pagliacci) che Zeffirelli mise in scena nel Ivietropolitan di New York e collaborava con altri registi italiani (Agosti, Ponzi, Mriana Renas) nella cura artistica di alcuni films.
Le sue prime personali ebbero luogo nel 1973 a Milano (Galleria "Fante di Spade"), nel 1974 a Roma (Galleria "Giulia") e nel 1975 a Bologna (Galleria "Forni").
I dipinti esposti rappresentavano operai, stazioni sotterranee, officine e ambienti industriali occupati da paradossali congegni dalle forme di un'astrusa biologia meccanica al limite del surreale, o personaggi amplificali dai media come Cassius Clay in tuta di allenamento, ritratto all'interno di una "cornice" realizzata con tiranti elastici. Telai di acciaio, lamine, tubolari, cilindri, profilati, carrozzerie dai toni bronzei, rugginosi o bluastri, disegnavano macchinari futuribili, dove un vago ricordo di Léger sembra sposarsi a un immaginario tra Matta e l'avvenirismo del fumetto, offrendo lo spunto a visioni che hanno dell'incubo o forse del sogno e si risolvono in robusti arabeschi plastici.
"In Habitat - scriveva Duilio 1Vlorosini - l'uomo che avanza si muove tra oggetti (corsia come tapis roulant, sfiatatoi come sirene, griglie come ingranaggi, ecc.) che appartengono al regno dell'ubiquità: padiglione da fiera dell'industria, interno di fonderia, sala-macchine di un battello, cunicolo di un bunker". Ciò affaccia, concludeva il critico, su "aspetti neo-metafisici e fantastici".
Dario Miccachi in una recensione apparsa su "L'Unità" vedeva in questi dipinti una denuncia sociale: "l'ambiguità, l'oppressione, l'orrore, il pauroso costo umano di una costruzione che degenera con l'uso e il fine capitalista". Con maggiore aderenza Mario De Micheli, nello stesso quotidiano, rimarcava piuttosto la "bivalenza" dell'atteggiamento del pittore, nei confronti della materia trattata: "Non c'é dubbio che egli abbia coscienza precisa dei processi alienanti a cui i personaggi trasferiti sulle sue grandi tele sono sottoposti nella situazione oppressiva della metropoli moderna; é tuttavia altrettanto vero che egli avverte al tempo stesso il fascino e la forza dello spettacolo urbano, delle sue prospettive, del suo paesaggio, della sua sorprendente efficienza tecnologica. Le macchine di Incedayi, le apparizioni tecniche dei suoi quadri, hanno si qualcosa di incombente, di minaccioso, ma sono anche apparizioni di viva suggestione, cariche di una paurosa bellezza".
'Perché - si chiedeva De Micheli - non è possibile che una tale bellezza cessi di essere paurosa e una tale efficienza di essere oppressiva? E' questa la domanda che sembra si debba intuire nelle forme urbane, nelle strutture, negli strumenti che incedayi disegna e dipinge con tanta evidenza".
La risposta che l'artista darà a questo interrogativo senza dubbio pertinente alla sua pittura di allora, una pittura che già lasciava trasparire dunque un desiderio di bellezza attraverso le maglie del "mostruoso" meccanico e soprattutto del fantastico, sarà nella svolta del suo lavoro verificatasi con gli anni Ottanta; quella bellezza di cui, in realtà, la civiltà moderna ha smarrito le tracce, non può ritrovarsi che nella rivisitazione del passato, invertendo la prospettiva già indirizzata verso il futuribile, ovvero proiettando nel futuro la necessità di un recupero umanistico e classico.
Allora l'incubo può serenamente rovesciarsi in sogno, sostituendo allo spasimo del presente la distensione della nostalgia, dei
ricordo, della contemplazione; attivando la lontananza del tempo e dello spazio, ovvero delle proprie origini tanto
storiche quanto geografiche, in una vicinanza di cui la pittura si fa tramite e strumento; contrapponendo all'Occidente l'Oriente, ma anche fondendo Oriente e Occidente in un leggendario ideale di bellezza, i vaporosi splendori del Bosforo e degli arabeschi ottomani alla purezza della Grecia e del classicismo; riscoprendo quella depurata carica di eros che lega in modo indissolubile, nel desiderio, le forme delicatamente carnali del nudo e l'idea stessa del Bello, la sensualità dei colori e la loro paradisiaca musicalità, l'abbraccio delle atmosfere carezzovole ma sfumato.
Il movimento "Metropolismo" fondato nel 1987 da incedayi unitamenta a Nico Paladini, Antonio Sciacca e Carlos Grippo, costituisce in qualche modo l'anello di congiunzione tra le due fasi, appena descritte, della sua pittura. ("Quasi che il vecchio mito di IvIetropolis rinascesse", aveva già scritto, nel 1975, Duilio Morosini, a proposito dei dipinti a soggetto urbanistico-industriale di incedayi).
Omar Calabrese teorizzò la tendenza, osservando che "i metrop°listi compongono stilemi, immagini, figure provenienti dai media, ma li trattano pittoricamente". "Citazioni di quadri e di sculture del passato convivono con altre di griffe di prodotti correnti", scriveva il critico &mito Oliva dedicando una monografia a incedayi e ai "metropolisti".
Rispetto tuttavia alle forme più rigide e ai colori più metallici, artificiali degli altri tre componenti del gruppo, allusivi effettivamente all'immaginario "freddo" dei media, le opere allora prodotte da incedayi manifestano un carattere profondamente diverso e quasi antitetico.
I titoli (Cartier, Cartier 2, Ferré, Vogue) richiamano l'universo della moda, ma la visione é già pervasa di toni delicati che ambientano, in un'atmosfera sfumata di grigi, nudi femminili ambiguamente sospesi tra stilizzazione e naturalismo. Le affetate silhouettes delle modelle s'incontrano come a metà strada, nell'evocazione di un clima simbolista, con la grazia di prototipi ellenistici e in alcuni casi (Sculture, Life, ELF) vengono decisamente sostituite da sculture che dichiarano a chiare lettere la loro appartenenza al repertorio classico. A questi nudi statuari, e ai capitelli ionici su cui poggiano, vengono accostati "feticci" della modernità: il marchio della Mercedes-Benz, una macchina da corsa, un aereo, come evocando il celebre apprezzamento marinettiano della Nike di Samotracia a confronto dell'automobile, e cercando un comune denominatore di "bellezza"; che tuttavia ai lucori metallici delle carrozzerie sovrappone il velo atmosferico di un sogno ormai inabissato nella contemplazione di tempi lontani.
Era inevitabile che nei lavori successivi i riferimenti "metropolitani", così tenuemente accennati, scomparissero del tutto, lasciando che un altro e ben diverso termine di confronto si affiancasse alle alitanti presenze del classicismo occidentale: l'Oriente, appunto, in un accostamento che elimina ogni contrasto per suggerire, piuttosto, una magica simbiosi della memoria; di persistente, anzi insistita vaporosità, tra sogno e ricordo, e di più nutrita, splendente evocazione cromatica. E forse é un destino che la parola "metropoli" debba accompagnare ogni fase della produzione di incedayi. Anche ora, infatti, a stamparsi negli sfondi é il fantasma della "metropoli", ma avendo ritrovato il proprio significato etimologico, e tutto diverso, di "città madre"; che per incedayi é istanbul.
Siamo così alla bellissima serie dei dipinti presentati in questa mostra, da cui istanbul si affaccia - all'orizzonte, alle pagine di un album aperto - con la solenne scenografia di Santa Sofia, delle sue cupole e dei suoi minareti: "sorgenti dalle acque ed elevati al cielo", vorrei quasi dire per mimare questo procedimento di contaminazione tra diverse classicità e tradizioni, che Incedayi così felicemente propone.
Nelle atmosfere venate di dissolvenze, ora nel grigio ora nell'oro di sfolgoranti tramonti, le forme delle statue, delle anfore e dei vasi, delle maioliche e dei vetri si calano come animate da un soffio di magia, ora rientrando, ora emergendo, con il candore ingresiano dei marmi o con i concavi, ramati riflessi che battono nei recipienti, o con le intarsiate, variabili cromie della ceramica, infine con i nitidi mandala di scritture annodate in castelli di segni.
Bellezza come incantesimo della memoria, nel concorso di "citazioni" che ricollegano le due contiguità mediterranee
dell'Ellade e del Bosforo, chiamandovi a convito gli affreschi raffaelleschi della Farnesina o il gruppo marmoreo del leone e del cavallo dai giardini del Campidoglio. Ed ecco, questa volta, proprio la Vittoria di Samotracia, planante su una roccia e al fianco non già del mostro marinettiano, bensì di un guerriero antico eroe greco forse dunque vittorioso, ma decisamente pensoso, egli ha deposto le armi e guarda attraverso il mare verso un orizzonte che potrebb'essere quello di Bisanzio; mentre dal lato opposto un leopardo che si accovaccia su un frammento di trabeazione sembra testimoniare nella sua calda prossimità la selvaggia natura d'Africa.
Ed ecco la leggenda si San Giorgio e il drago, trait d'union tra altre due sponde, quelle dell'Adriatico; ed ecco la statuetta acefala di Venere, già accostata da van Gogh e da de Chirico a una natura morta, come anche incedayi l'accosta.
La densità culturale dei riferimenti si scioglie però morbidamente nella naturalezza di
questo flusso di ricordi che affiorano dal sentimento. Tutto rivive, con il mito, in quel soffio di magia che al mito é congeniale e che é anche un trasporto di amore.
Altre volte sono fiori e frutta a fare da contrapposto alle preziose calotte ottomane, o alle trame lucenti e ieratiche delle
maioliche, o all'apparizione di una tavolozza, assimilando al concerto dei marmi, degli smalti e dei rami i colori della natura, e della pittura.
Una testa ricciuta (proveniente dall'Apollo del Belvedere?) poggia su un'incudine prendendo il posto del pitagorico strumento di Ilibalcain, il fabbro che inventò, a colpi risonanti di martello, la musica; accanto, un vaso di fiori poggia su due libri, e tra questi oggetti come sospesi nella loro circolarità, si crea un rimando di significati poetici e spirituali.
E' spontaneo parlare di spiritualità, o anche di sacralità, a proposito di questo non composito ma simbiotico e interiore culto della bellezza che ispira la pittura di incedayi. Essa mescola polarità non soltanto della storia, ma anche del tempo storico e del tempo indeterminato dei miti, della patria geografica e della patria universale. Ed è stato spontaneo parlare di eros, di nostalgia, di speranza, di recupero del passato come proiezione nel futuro.
Questi elementi non nascosti ma dichiarati con eloquenza e insieme semplicità di sentimento, si intrecciano però in una complessità, che è quella della loro reciproca, calibrata rispondenza nella sapienza pittorica. Le tecniche impiegate ne sono un riflesso: la matita, la china, il pastello, gli oli sono strumenti ben dosati e tra loro rifusi in un amalgama come a caldo; ma è il caldo di un fuoco tenue e aromatico che brucia come il sapienziale crogiolo degli alchimisti, dove si formava la polvere dell'oro.